“The mirror is broken”. I “freaks” di Diane Arbus arrivano a Beverly Hills

 

Diane Arbus

Anarchia, ibridazione, dispersione, disseminazione, decostruzione, traccia, indeterminazione, differenza. Sono tutta una serie di concetti che si oppongono ben volentieri ad un’altra serie di definizioni che riconducono all’ordine, al modello, all’identità, alla presenza, al definibile e al decifrabile.

Diane Arbus, A House on a Hill, Hollywood, 1962

Un “gioco” che porta alla discontinuità più che alla continuità, diacronico e sincronico allo stesso momento. Questa può essere la chiave di lettura di un’artista icona complementare di una delle sfaccettature dell’arte americana degli ultimi periodi: Diane Arbus in una mostra dal titolo People and Other Singularities, presente dal 19 aprile al 27 maggio alla Gagosian Gallery di Beverly Hills in California.

 

Diane Arbus, Mia Farrow

La fotografa  che per eccellenza è stata “additata” come colei che portò in stampa le immagini dei “freaks” americani, colei che, come scrisse Coleman, se Sander fotografa i suoi personaggi in base alla classe sociale di appartenenza e in funzione a quest’ultima, la Arbus fotografa i suoi soggetti in relazione al loro corpo e alla loro sessualità. Traduce appieno il concetto di arte postmoderna “non più il purismo modernista ma un punto di convergenza che le conferisce una connotazione fortemente simbolica, comunicativa e perciò sociale”, ovvero “il gioco che fa della coscienza un campo di pulsioni, informazioni, desideri e memorie privo di centro ordinatore e dominante, e porta a una visione della storia come ‘happening'” (Ihab Hassan).

Diane Arbus, A Jewish giant at home with his parents in the Bronx, N.Y., 1970

Diane Arbus, allieva di Lisette Model, è nata a New York nel 1923, e ha iniziato la sua carriera come fotografa negli anni ’50. Ha ricevuto la borsa del Guggenheim nel 1963 e 1966. Influenzò la generazione cresciuta con le canzoni di Bob Dylan, trovò i suoi soggetti nella città natale ma anche in Pennsylvania, Florida e California, concentrandosi su soggetti privati e pubblici, dai ritratti alle feste locali. In mostra ci sarà l’intero suo lavoro che va dal 1956 al 1971 dopo la grande mostra Diane Arbus: Revelations al Los Angeles County Museum of Art nel 2004.

Diane Arbus, A Child Crying, N.J, 1967

La Arbus, outsider e freak, raccoglie un campionario di soggetti  con qualcosa di insolito nel loro aspetto o nel comportamento. Trovava analisi ed autoanalisi in ogni soggetto che decideva di fotografare “Tu vedi una persona per la strada, e la cosa fondamentale che noti è il suo difetto” (citato in Susan Sontag, Sulla fotografia). Ed è così nella famosa immagine ed icona della stessa fotografa, Identical twins (1966) che fa parte della raccolta A Box of Ten Photographs(1970), oppure nelle fotografie Untitled, immagini scattate negli ultimi anni della sua carriera, dove i soggetti principali sono nani, travestiti, lesbiche, gemelli.

Diane Arbus, Identical twins, Roselle, N.J., 1966

Saranno presenti alla Gagosian anche una serie di immagini che l’artista ha scattato in California come Rocks on wheels, Disneyland (1963), un ibrido tra il castello disneyano e quello più inquietante di Dracula. La continua ricerca di analisi di se stessa attraverso lo sguardo degli altri è evidente anche in The Mirror is broken, lo specchio si è rotto, il titolo che Coleman diede all’articolo del “New York Times” pubblicato su Diane Arbus dopo la morte avvenuta nel 1971: “Molte persone vivono nel timore che possano subire qualche esperienza traumatica. I freaks sono nati con il loro trauma. Hanno già superato il loro test, nella vita. Sono degli aristocratici” (da Diane Arbus di Doon Arbus e Marvin Israel, Allen Lane, Londra, 1974).

Diane Arbus, Untitled, 1970

La fotografa esprime appieno e inconsapevolmente uno dei termini nati all’inizio del XX secolo: il perturbante. Freud lo portò alla “ribalta” nel 1919 definendo con questo termine “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”.  Tutto nella Arbus c’è familiare ma ci inquieta. Lo riconosciamo e pur riconoscendolo ci genera angoscia ed estraneità. Come se fossimo scaraventati improvvisamente nel romanzo “I viaggi di Gulliver” e non riuscissimo ad uscirne. Giganti e nani si assemblano inquietando la nostra vita tranquilla (quasi perfetta) dove, alla fine, persino una nana vestita di giallo potrebbe essere più reale del reale che ci viene proposto o, semplicemente, come per la Arbus, il nostro alter-ego.

 

Diane Arbus, Untitled (Marcella Matthaei), 1969




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